lunedì 6 febbraio 2012

I MIEI RICORDI, il diario di Francesco Cutugno

 Anteprima del nuovo libro di Massimo Tricamo
(in corso di pubblicazione) intitolato «Vaccarella ieri ed oggi»

«Sei bianca fuori ma il tuo corpo è pieno di biondo sottilissimo veleno». Proprio «come una sigaretta, che in fumo se ne va». Francesco Cutugno, classe 1909, esperto pescatore di Vaccarella con trent’anni di vita tonnarota alle spalle, la canticchiava spesso questa canzone, uscita intorno al 1930, ai tempi del servizio militare, quando fu imbarcato per 28 mesi a bordo della corazzata Andrea Doria, uno dei gioielli della Regia Marina Militare durante il ventennio fascista. La canticchiava sempre, anche quando, ormai anziano, andava a pescare lungo le coste di Capo Milazzo col nipote Salvatore Salmeri: «trovai una donna e somigliava a te e il suo veleno lo diede tutto a me. Come una sigaretta». Una bella canzone dalla melodia fascinosa, avvolgente e con un testo abbastanza eloquente, tanto da meritare l’inserimento nel proprio diario di ricordi. Già, perché Francesco Cutugno teneva un diario. Ormai anziano, aveva 83 anni, decise di mettere su carta i ricordi d’una vita, approfittando di quel minimo d’istruzione che gli venne impartita da bambino, quando frequentò le scuole elementari sino alla «sesta classe popolare». Tra il 1993 ed il 1996 (morì quasi centenario nel 2006) annotò i suoi ricordi più belli, alternando momenti ora ironici, ora commoventi. Come il dolce ricordo della cara mamma: «ogni mattina, quando passavo per andare alla Tonnara, mi dava una tazza di caffè. Mi voleva bene e quando è morta [ha] avuto la forza di alzare la mano per benedirmi».
Nel diario si accavallano ricordi di ogni genere, come le battute di pesca memorabili, i trent’anni trascorsi ininterrottamente alla Tonnara del Tono, i contrasti, spesso aspri, con le autorità civili e marittime che controllavano il regolare andamento della pesca e del commercio locale. Ed ancora le piccole disavventure adolescenziali, come quella registratasi quando aveva 12 anni: vittima di uno scherzo di cattivo gusto, fu costretto a gettarsi in mare nella Praia, là dove oggi sorge la Raffineria. I ricordi di lanciere alla Tonnarella di Vaccarella (aveva 15 anni) e quelli dei brevi viaggi in barca col nonno paterno per acquistare la frutta e la verdura poi vendute a Vaccarella. I momenti di dolore, come la perdita della moglie Maria Tindara, scomparsa nel 1979, o la morte del nonno materno che Francesco non poteva ricordare: se ne andò il 15 agosto 1909, a soli 61 anni, alla Tonnarella di S. Antonino, morso in viso da un insetto mentre dormiva per terra.
Ricordi, tanti ricordi, come i sogni che si avveravano sempre, il salvataggio dell’idrovolante nel 1941 e la caduta nel Molo Marullo davanti alla Capitaneria di Porto: aveva ottant’anni, si ruppe il femore e da allora dovette rinunciare ad andare a pesca. Ricordi, come quelli della vita militare. Il servizio di leva a bordo dell’Andrea Doria, con la quale raggiunse la Palestina nel 1929 (avrebbe conservato gelosamente un diplomino che attestava la visita ai luoghi di Gesù), ed i diversi richiami alle armi: nel 1935, quando venne assegnato alla base di Murro di Porco nel Siracusano, nel 1936, a bordo dell’Esploratore Bari, nel 1937, assegnato alle strutture militari del Tarantino, ed infine nel 1939, quando venne trasferito in Albania.
Il giovane nipote Salvatore Salmeri, anch’egli pescatore di Vaccarella, venuto a conoscenza delle ricerche condotte dallo scrivente sulla storia marinara di Milazzo, non ha esitato a consegnare alle stampe questa straordinaria carrellata di memorie del nonno Francesco Cutugno, qui trascritte integralmente così come lui stesso le mise su carta giorno dopo giorno e, soprattutto, col medesimo linguaggio sgrammaticato adoperato dall’autore, sebbene sia stata apportata qualche minuscola correzione per renderne più scorrevole la lettura.


Francesco Cutugno cuce «'i battùgghi» a Vaccarella (1 agosto 1969).

Mio padre. Ricordi di quando ero ragazzo di anni 11 e andavo a pescare insieme a mio padre. Ora che sto scrivendo ho già compiuto 83 anni, 8 mesi e 19 giorni. Ricordo quando andavamo con la barca piccola con mio padre a calare le battuglie, io remavo e lui faceva la rete andando verso il Capo. Io avevo 11 anni, lui diceva ridendo: “voga!” Ed io vogavo. Gettavamo la rete per salpare l’indomani. Dopo un periodo di tempo mio padre partì per l’America e rientrò a casa portando 17 mila lire. Mia madre era fissata a comprare le case di Andrea D’Amico, che erano quelle che abitava la zia Concetta e suo marito. Il prezzo era di 12 mila lire. Ma intanto mio padre era deciso di comprare tutta la rete. C’è stato bastonate e molte chiacchiere e, anzi, mia madre è stata ammalata. Ma lui ha comprato ugliara, cannara per cefali, ramastina, battuglie, due barche grande: i soldi li ha spesi tutti.

Una vita per la pesca. Dopo io sono stato grande ed ho partito per soldato. Ho fatto 4 anni di militare. Quando mi hanno congedato sono stato alla Tonnara, facendo 30 anni di tonnara, che nei mesi che ero a casa mi sono preso la rete di Salamone a comando. Dopo ho lasciato quella di Salamone e mi presi quella di Del Bono [detto] Chiapparèdda. I pesci ne ho presto abbastanza, che una notte sola ne abbiamo presi 3 mila chili, io avevo due parte, mi è andata bene. Nel periodo della tonnara andavo lo stesso, dopo, vedendo che le cose andavano bene, mi sono consigliato con mia moglie e non ci sono andato più. Andavo con Stefano [Maiorana detto] Spada.

Visita a Betlemme. Ricordo che [nel 1929, ndr] sono andato a Betlemme con la nave “Andrea Doria”, siamo sbarcati a Giaffa, proseguendo col camion per Gerusalem. Dopo siamo andati a Betlem, dove ho visto la grotta del Bambinello con la mangiatoia, dove è nato Gesù con l’asinello. Dopo, fuori nel giardino c’era l’albero dell’olivo centenario che io allora ho portato a casa un rametto. Là abbiamo mangiato pasta asciutta con una quantità di meloni, alla sera siamo partiti per andare a bordo della Doria.

I miei figli. Ricordo quando andavo a mare con mio figlio Santo con la filòsa. Certe volte me lo portavo col rizzaglio e lui aveva paura, che c’erano le galline e facevano rumore e una volta si è buttato con le scarpe a mare ed [è] venuto da me. Certe volte anche con Mico mio figlio, che erano piccoli di 10 e 11 anni: li portavo per compagnia, i cefali li prendevo.

Mio genero. Ricordo quando andavo con Nino, mio genero, con le battuglie: prendevamo cernie e ope, eravamo nel ’70, nel ’71, nel ’75, calavamo nel scoglio a mare. Calavamo la lacciara, c’era qualche volta Santo. Una notte abbiamo preso 400 chili di pesantone e Santo ha detto: «se ancora ne prendiamo la barca va a fondo» ed io ho risposto: «prega a Dio che le prendiamo».

A pesca nella Praia. Ricordo quando eravamo con la lacciara in Plaia, abbiamo preso una volta 50 chili di tonnacchi e l’indomani, la seconda notte, abbiamo preso tonnacchi e pesantoni: quelli erano tempi di pesca che ora non ci sono più. La pesca va a diminuire e peggiorare.

Ricordo della visita in Terrasanta rilasciato al «marinaio Cutugno F.sco» (4 luglio 1929).

Rondoni. Ricordo che un giorno, nel mese di ottobre, siamo andati con la ugliara. Era tempo di rondoni, c’era mio figlio Santo: ne abbiamo preso e caricata una barca piccola, quella di Santo, più di 300 chili e l’abbiamo scaricati qui sotto dove abitavo io [via Marina Garibaldi, angolo via Erta S. Domenico, ndr].

Aguglie. Ricordo quando andavo con la ugliara di mio padre ed io, che avevo 17 o 18 anni, andavo per terra di sotto S. Papino ad arrivare a Calderà: io li facevo fermare che sentivo auglie e li prendevamo. Quelli erano tempi che non c’era non Finanza e non legge: si camminava senza essere disturbato da nessuno. C’era anche Faraci, che era cieco completamente ed io lo guidavo per terra.

Il falso finanziere. Ricordo quando ero giovine, andavo con la sciabica di Mariano Romagnolo che l’aveva a comando Piripìzio. C’eravamo io, mio cognato Saverio Cartesio e calammo nella Plaia. Abbiamo preso 1.000 chili di saure. Questi saure l’abbiamo messi per terra ed a me mi hanno lasciato di guardia ai saure, che dopo un bel pezzo è venuto un guardia di Finanza, che questo guardia era una finta guardia, che io l’ho conosciuto. Dopo che si è fermato e parlato con me, mi ha obbligato che ci dovevo dare la mettà dei pesci; io ho detto che ce ne davo 10 chili e se ne andava. Lui diceva di no. Allora io mi arrabbiai e ho detto che lo disarmavo e lo buttavo a mare, così ho litigato: sono venuti Piripìzio ed altri, dicendomi che li facevo andare in galera. Così è finita, minacciandolo e se ne è andato prendendosi 10 chili di saure. Dopo qualche due mesi è venuto a casa mia ed era Giovanni, compratore di pesci che anch’io li vendevo, ed anche Santo Testa li vendeva: ha domandato scusa a me e di perdonarlo, che era la fame che ci faceva fare quei scherzi, anche si è messo a piangere e, dopo un paio d’anni, è anche morto.

Pagina autografa del diario.

Palamiti. Ricordo una notte che varammo di sotto S. Papino per andare a cercare augli. Quando avevamo camminato qualche ora, eravamo sotto il tipo a piccione, ci ha incontrato una bella partita di palamiti, ne abbiamo presi più di 200 grossi da due chili [mentre] gli altri l’abbiamo persi, che la ugliara era vecchia. Dopo, mio padre l’ha rinnovata. C’era Nino D’Amico, il padre di Salvatore “Lampiatore”, c’era il “Bagiano”, marito dell’”Arrivera”, c’erano tutti i fratelli Maisano, padre di Mirasùli: io ero ancora giovanotto di 15 anni e mi ricordo che l’abbiamo scaricati nella banchina.

Coraggio da leone. Ricordo [che] una notte, verso le 10, sono andato col rizzaglio. Mi hanno preso a pietrate ed io dicevo: «tirate, tirate, che non ho paura», perché le pietre me li tiravano davanti per farmi ritornare. Sapete chi erano? Rocco Cicirello e Girasèlla, che avevano andato a rubare olive, che al ritorno li ho visti con due sacchi: mi hanno visto e si mettevano a ridere, che Girasella mi disse: «hai coraggio d’un leone!»

 La corazzata Andrea Doria, a bordo della quale Cutugno fu imbarcato per 28 mesi.

Murro di Porco (Siracusa). [Nel] 1935 fui richiamato e portato a Murro di Porco. Tutti quelli [a cui] domandavo si mettevano a ridere. Tutta Siracusa mi diceva che [Murro di Porco] non esisteva. Dopo che si è fatto tardi e sempre domandando, ho incontrato un carrozziere e mi ha detto: «si, mi pare che è alla lanterna, ma però il cavallo non ce la farà perché è troppo lontano». Così io mi sono messo a pregarlo e dargli quello che voleva e così quel bravo cristiano mi ha portato facendo 15 chilometri di strada tutta spasciata. Quando è arrivato ha dovuto spaiare il cavallo stanco. Io l’ho fatto mangiare ed i miei compagni che ho trovato, che dopo siamo stati come fratelli, ci hanno regalato una bottiglia di vino e cinque lire ho dato [io] per il viaggio. Ricordo che tutto questo l’avevo sognato anche.
Il signor Marceca, che ancora ricordo con la sua signora, dopo un mese che ero stato a Murro di Porco, ha fatto un bel bambino: si chiamava Rinuccio, e quando ha fatto 5 o 6 mesi voleva venire sempre con me e lo portavo sempre in braccio. Ora ha 55 anni, io avevo 26 anni [nel] 1935. I suoi genitori sono morti, perché erano più grandi di me. La signora si chiamava Mattea ed era una brava signora. Ricordo che questa signora mi invitava ogni domenica a pranzo, che eravamo vicini della nostra abitazione. Andavo sempre a pescare, che sotto c’erano scogli e prendevo aguglie. Ed una volta ho visto un grosso polpo: ho preso un amo grosso e l’ho preso. Abbiamo fatto una bella mangiata insieme con i miei compagni e loro, il signor Marceca e sua moglie, perché il polpo era otto chili.
Ricordo che mio fratello Nicola mi veniva a trovare dopo che uscivamo fuori a fare la guerra, anzi lui diceva che qualche volta non ritornava perché [avevano] colpito due dei suoi stessi navi. Ogni volta che lui veniva ci facevo trovare mandorle schiacciate, che ce n’erano senza fine.

Richiamato. A destra, con altri due commilitoni.

Piangevamo tutti come bambini. Ricordo ancora [che] sono stato richiamato [nel] 1936 [quando] sono stato imbarcato sull’esploratore “Bari”, che c’era imbarcato anche Salvatore Chillemi ed una notte, mentre che eravamo a fare grandi manovri di guerra, c’è stato allarmi ed abbiamo preso fuoco a basso nella santabarbara. E’ venuto il Comandante e ci ha detto che eravamo in pericolo di saltare in aria. Ha dato ordine di spogliarci tutti, pronti, appena fatto il segnale, di buttarci a mare. Piangevamo tutti come bambini. Salvatore Chillemi chiamava sempre a sua madre gridando. Dopo è sceso un sottocapo che è salito pieno di fumo, dicendo che non poteva fare niente. Dopo, vedendo che le cose andavano male, è sceso il Comandante con una lampadina ed ha visto che si trattava di una paio di pantalone sopra l’asse: così l’ha preso, che se passavano un altre cinque minuti non si sapeva più niente del “Bari” e di tutti noi, perché, ha detto il comandante, anche che noi ci buttavamo a mare, morivamo lo stesso. Mi ricordo che con Salvatore ci siamo baciati piangendo.

San Francesco proteggimi tu. Ricordo [che] mi hanno richiamato un’altra volta nel 1937, quando è nata mia figlia Checchina. Mi hanno destinato a Rapillo, dove c’erano tanti e tanti serbatoi di nafta ed a noi ci hanno destinati a fare la guardia di notte e di giorno. Mi ricordo che una notte, mentre ero di guardia, ha passato un apparecchio tedesco. Per mia fortuna ha sbagliato il bersaglio e la bomba l’ha sganciata in un giardino vicino Taranto, perché Rapillo era vicino Taranto: figuratevi la paura che ho provato nella mia vita da richiamato vissuto per miracolo! E’ stato San Francesco a salvarmi!

L’Albania. Ricordo [che] mi hanno richiamato ancora nel 1939. Mi hanno portato a Pola, che dopo un paio di giorni mi hanno portato in Albania: mi hanno portato in una montagna alta 387 metri, si chiamava Canina. Dopo sono sceso e portato a Ducati, che abbiamo fatto la guardia con le zanzariere perché c’erano le zanzare: ero insieme a Stefano Spada e Salvatore Salmiere  [detto] “Turi Pennello”. Ci davano una calletta ognuno e scatola per dividere in tre. A noi ci hanno fatto prendere la fame, mentre il Comandante, che era grande, aveva 50 anni, richiamato come noi, si faceva portare le galline dell’Albania e se le mangiava bollite. Un giorno Ciccio Catalano, che l’hanno portato anche là con un camion con altri soldati, ci voleva sparare al Comandante, dicendo: «questo è posto per animale, non per cristiani!» E così, dopo tre giorni, ci hanno portati a Vallona.
Ricordo un giorno, mentre eravamo seduti con Nino Brunini vicino alla banchina e guardavamo a mare, abbiamo visto delle scorze di cocciole. Allora io ho detto di provare a scavare, perché il mare era basso. Siamo scesi levando le scarpe e, appena scavammo, sono spuntate le chiocciole; non c’è da credere: in cinque minuti ne abbiamo trovate più di quattro chili. Sapete come è successo? Non li abbiamo voluti perché avevamo paura della malaria, erano lì per terra. Dopo un pezzo è venuto un certo Nino Composto: «lasciate che li mangiamo noi» e ci ha dato qualche chilo di formaggio, perché lui era nella cucina dei marinai. Tutto questo in Albania, che dopo ci hanno messo tutti sopra un piroscafo e ci hanno portato a Taranto, che l’indomani ci ha chiamato in assemblea il Comandante Turchi e ci disse: «il 1909 e 1910 siete stati congedati e potete abbracciare le vostre famiglie! Siete stati fortunati che, nel periodo di guerra, il Comando vi ha mandato il congedo del Ministero della Marina, che ci ha mandato ordine».

L’applauso. Ricordo quando una notte abbiamo preso una barcata di acciughe. La barca si chiamava “S. Giuseppe”. Noi, con la barca carica, passavamo dalla banchina [dove] c’era[no] Pippino Del Bono e l’altri suoi fratelli e ci battevano le mani della contentezza: sapevano il [loro] guadagno e noi guadagnavamo 50 mila lire con quattromila chili, ci contentavamo di quelli. Io ero padrone di comando ed avevo due parti.

A pesca col rezzaglio. Ricordo una notte [quando] siamo andati con mio fratello Nicola con il rizzaglio, verso le dieci di sera. Quando siamo arrivati sopra, dove c’era il mal passo [il viottolo, di difficoltosa percorrenza (da cui la denominazione “mal passo”), che esisteva a Capo Milazzo prima della costruzione della strada Panoramica, ndr], abbiamo visto un’ombra là sotto che si muoveva, allora mio fratello, che aveva paura: «o giriamo o lo prendo a pietrate», mi ha detto. «No», ho risposto, «dobbiamo vedere che cosa è». Allora, piano piano, siamo andati. Sapete chi era? Nino Lo Presti, anche lui col rizzaglio. Io ci dissi che lo volevamo prendere a pietrate. Si è messo a ridere e ci ha detto: «mi volevate ammazzare!». Ce ne siamo andati verso il Pepe e abbiamo preso qualche 5 o 6 chili di pesce scorfane, morgione, bause.

Il cane e l’uva. Ricordo un giorno [che] ero richiamato a Rapillo. Mentre mangiavo, un sottocapo, che si chiamava Zingone, mi ha detto: «Cutugno, vai a prendere un poco di uva qui vicino. Qua nessuno ti dice niente». Allora io mi prese un cestino e andai. Mentre stavo prendendo l’uva è spuntato un grosso cane, che mi voleva mangiare. Allora io mi sono fatto coraggio: sono andato vicino una parte che c’erano pietre e mi sono messo a tirare pietre, che ho capitato pure al cane. Allora ha spuntato un uomo con il fucile. Mi ha detto: «questi sono modi di comportarsi?» Io risposi: «si, se non ve ne andate le pietre, invece del cane, le tiro a voi!» [E lui:] «ditemi, di che paese siete?» [Risposta:] «se non lo sapete sono siciliano». [Replicò dicendo:] «basta, me ne vado, siete testardo». Tutto questo l’ho raccontato al sottocapo Zingone, che dopo ha fatto un esposto, perché il locale era già [stato] sequestrato dalla Marina, che dopo qualche mase è passata la ruspa e ha smantellato tutto e, da allora in poi, l’uva la prendevamo tutti i giorni.

Il tesoro. Ricordo che una notte ho sognato che ero alla Croce di Mare, che scavavo nella parte dove abitava Maria “Nira” e ho trovato, mentre dormivo, una blocca ed era piena di soldi. Mi sono svegliato ed ho ricordato il sogno. Allora io, quando erano le nove, stupidamente ho chiamato a Mico Cicchitto, il marito di Pasqua Catalano, e ci ho detto tutto quello che ho sognato. Prendemmo due pale e scavammo: abbiamo trovato proprio quello che ho sognato. Trovammo la blocca piena di terra. Questo vol dire che io dovevo andare da solo e non dovevo portare a Mico: il sogno era mio.

I miei sogni si avverano tutti. Ricordo [che] una notte, mentre i[n] quel periodo andavo con Piripìzio, ho sognato che era[va]mo col sciabacone: calammo al Casalello, nella banchina, e prendemmo tre alecce (tre cavagnole grosse di 15 chili ognuna). Allora c’era anche mio cognato Saverio Cartesio. Ci ho detto il sogno e calammo al Casalello. Prendemmo le tre alecce. Piripìzio mi ha detto: «perché non fai il mago?» e si è messo a ridere, perché i sogni mi riuscivano tutti.

L’ennesimo sogno che si avvera. Ricordo [che] una notte, [quando] avevo 16 anni e dormivo nel mio lettino, ho sognato che andavo con mio padre con la ugliara e prendemmo 100 chili di augli nel porto. Allora io mi svegliai e l’ho chiamato. Era Lui si è alzato e [ha] chiamato la gente. Siamo andati nel porto e abbiamo preso 140 chili di agugli. Mia madre mi disse: «i tuoi sogni si avverano tutti». La gente mi guardava e diceva: «chissà cosa hai in testa. Ti succedono tutti i tuoi sogni».

La morte di mio nonno. Ricordo una notte, mentre ero richiamato ed ero con Nino Brunini. Dormivamo [in] una stalla, c’erano topi e zanzare. Io mi sono addormentato ed ho sognato che [era] morto mio nonno. Ho chiamato a Brunini e [glie]lo raccontai. Lui mi disse che ero sonnambulo: «finiscila, non mi dire fesserie…». Dopo sei giorni mi è arrivata la lettera di mia moglie e mi diceva proprio che [era] morto mio nonno. Portava la data della notte che me l’ho sognato. Ho preso la lettera [e] ce l’ho fatta leggere a Brunini, che mi ha guardato negli occhi e mi disse: «perché non ti sogni un terno, così lo giochi?» Tutti questi sono ricordi che non posso dimenticare [ed] è tutta [la] verità, perché ricordo sempre sino alla morte, perché i miei sogni mi riuscivano tutti e non mi ho sognato mai un sogno benefattore che mi fa vincere soldi.

La Tonnarella di Vaccarella. Questo è un ricordo della mia fanciullezza, quando avevo 15 anni e non [lo] dimentic[herò] sino [a] quando sono in vita. Ero giovanotto ed ero, alla Tonnara di Vaccarella, lanciere con Salvatore Chillemi. Era tempo che prendevano tonnacchi e pesantonelli nel mese di agosto e settembre, perché la Tonnara faceva il ritorno. Battaglia [proprietario della tonnarella, ndr] la lasciava a mare. La sera tiravamo la lancia sotto la Loggia, dove io avevo la casa vicino (…).

Uno scherzo di cattivo gusto. Ricordo sempre a passare i giorni, che mi viene da ricordare tante e tante cose che mi hanno successo. In quei tempi, che ero con la ramastina di Matteo Cambria, chiamato “il Suddo”, una notte andammo nella Plaia, oltre la lena, oltre il fiume. Io avevo 12 anni e mi portavano perché ero conosciuto come parente ed era estate. Calammo ed a me mi lasciarono a terra a tenere la cima. Io ero seduto ed aspettavo che venivano a terra con la barca. Dopo una 20 minuti, di sopra al canneto, che c’erano le canne, è spuntato un uomo con un fiasco nelle mani. Si è avvicinato a me e, saltando e girando il fiasco che aveva in mano, mi disse: «carogna, tirati sotto!» Io mio sono preso paura e mi buttai a mare, arrivando quasi a 50 metri al largo della spiaggia. Questo da terra mi chiamava e mi diceva: «gira, che io scherzo». Allora dalle tante voci e gridi che c’erano la barca è ritornata e c’era anche Franco Lo Presti, il marito di donna Sara Volante. Quando arrivarono a terra, Lo Presti l’ha preso e lo voleva buttare a mare, ma questo era Peppe C. ed era ubriaco, che dopo anche è venuto Mastro Lindo, che era con la lampadara e lo voleva ammazzare, dicendo: «ci stava facendo morire a quel creatore!». Sapete come è finita? Ci siamo venuti a casa, senza fare niente perché l’abbiamo perdonato, che si meritava [essere] arrestato. Lui si è messo a piangere, dicendo che l’aveva fatto per scherzo. Io sono andato a casa, spogliandomi della roba e sono andato a letto. Che quando ha fatto giorno, l’ho raccontato a mia madre: mi giurò che non mi mandava più. Ma a me mi piaceva di andare e, dopo un paio di giorni, sono andato un’altra volta. Mi piaceva stare con loro.

Lanciere alla Tonnarella di Vaccarella.

I bocconi e il finanziere. Ricordo un giorno che non avevo da fare. Ho chiamato a Mico Salmieri detto “Bumbaro” e ci dissi di andare [con me] nel porto a cogliere boccone. E ce n’erano assai. Io avevo una barca piccola e stavamo andando nel porto. Nelle scoglie della lanterna c’era un guardia di Finanza che pescava. Allora ci ha chiamato e ci disse di favorire la licenza. Io l’ho guardato e ci disse: «come, non vi vergognate, con una barca spasciata e piccola, di cercarci la licenza? Noi andiamo a passarci il tempo a cercare bocconi…». Ma lui ci ha detto che ci faceva il verbale. Noi siamo andati lo stesso. Ci ha chiamati, ci ha detto di presentarci all’Intendenza di Finanza. Noi, verso le 11 dell’indomani, siamo andati. Dopo un poco di tempo che parlavo con l’ufficiale è venuto Calapaj, il padrone della Tonnara [del Tono, ndr]. Ci ho raccontato tutto e dove andavamo noi. Lui, Calapaj, si è messo a ridere e ci disse: «andate a casa». E così, sapete come successe? Quel guardia di Finanza l’hanno traslocato e mandato via!

Il gatto portafortuna. Ricordo una notte, verso le dieci. Mi sono partito di casa e sono andato col rizzaglio. Mia moglie non voleva, ma io ci ho detto che ritornavo presto. Quando sono arrivato alla Croce di Mare, ho buttato il rizzaglio e ho visto un gatto messo con le zampe in alto che mi guardava. Allora ho preso il rizzaglio e l’ho trovato tutto attaccato, che non potevo più lèstire. Dopo che l’ho lestito, ho ritornato per venirmene a casa ed ho visto a mare una partita di cefali: ho buttato il rizzaglio, che si [è] riempito pieno. E ne ho preso più di venti chili. Quel gatto mi ha portato fortuna. Quando sono andato a casa, che erano le undici, mia moglie li guardava ridendo. Quando li portai in pescheria Salamone me li pagò benissimo.

Con la moglie Maria Tindara, nel 1969.

Un capitano scadente. Ricordo ancora [che] un giorno andammo al Capo col sciabacone: andavamo a smedile. Quando erano verso le undici, siamo ritornati per ritirarci a casa. Prendemmo una cinquantina di chili di smedile. C’era[no] mio cognato Stefano Tardini e Nino Linora. Quando arrivammo alle Ruttàzzi aveva il timone Nino Linora, a poppa, e siamo arrivati dove c’è ancora lo scoglio. Investimmo, che a momenti la barca si rovesciava. Allora Stefano ha guardato a Nino Linora ed ha detto: «sei un capitano di ‘mmerda!» A me questa parola mi è [rimasta] per ricordo impressa nella mia mente e non l’ho mai dimenticata: sono passati più di sessant’anni e [la] dimentic[herò] quando non ci sarò più. Stefano Tardini ha lavorato un bel poco di tempo con noi, con la sciabica di Romagnolo. Mi ricordo che andavamo al Capo a smedile.

Il sequestro. Ricordo un giorno nel mese di ottobre [quando] andammo con mio figlio Santo, con la mia barca piccola, verso la Plaia. Quando arrivammo, [ad] un certo punto, vedemmo una partita di tonnacchi, allora prendemmo col coppo un poco di acciugarino e ci mettemmo a pescare: ne prendemmo una cassetta di 10 chili, dopo [di] che li portammo a terra. L’abbiamo messi sopra il muro, davanti l’associazione, per portarli in pescheria. E’ [quindi] venuto un uomo, che era amico di Nino e ci ha pregato di dargliene due. Noi, per non dire di no, l’abbiamo dati. Dopo un po’ di tempo è venuto il Guardia [vigile urbano, ndr] *** e ci ha detto che era[va]mo in contravvenzione. Allora mio genero Nino si è ribellato, dicendo che non l’avev[amo] venduti ma ce li avevamo regalati ed era[va]mo pronti per portarli in piazza [pescheria, ndr]. Questo, ***, non lo voleva capire: si è preso i tonnacchi e si l’ha messi in macchina. Allora Nino si è arrabbiato e ce li voleva buttare in faccia. L’ha denunciato per minaccia e se li portò [i tonnacchi, ndr] al posto di guardia, consegnandoli al Capo Cocuzza. Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo telefonato al dottore Cartesio [allora sindaco di Milazzo, ndr], dimostrando le nostre ragioni. Subito ha telefonato a Cocuzza per darci i tonnacchi e mandarci a casa. Subito ci ha dato i tonnacchi, che l’abbiamo portati in piazza e venduti. Basta, non è successo niente. Ma *** ci è rimasto male: ci guardava con disprezzo.

La pasta col sugo dei totani. Ricordo che andavo sempre con mio figlio Santo. Un giorno siamo andati con la filosa. Io guardavo a mare che c’erano tonnacchi a galla e, mentre guardavo, ho visto una cosa a galla e, guardando, mi è sembrato che era un mazzo di rafanelli. Ma poi, guardando meglio, ho detto a Santo: «guarda, sono totanelli». E così ho preso il coppo ed ho preso tre chili di totanelli vivi, che l’ho messi nella barca. Dopo l’abbiamo portati a terra, che Donna Gioacchina ci ha pregato di dargliene un poco: così ne abbiamo dato un chilo e l’altri li portammo a casa, che mi moglie ha fatto il sugo per la pasta.

Il cadavere che galleggiava. Ricordo ancora precisamente quello che faceva mio nonno e quante ne combinava! Io ero ancora ragazzino, potevo avere undici o dodici anni. Mi portava con lui nella sua barchetta piccola. Allora andava da Francesco Lanuzza, che aveva la campagna, a lavare la lana, dove c’era il fiume che ora c’è la Raffineria. Andava a comprare la frutta, pomidoro, meloni ed altre cose, perché lui li vendeva, che aveva il banco davanti la porta. Li mettevamo nella barca e li portavamo a casa. Lui, per prendere la frutta, andava ogni settimana. Anzi, ricordo che una volta, mentre andavamo da Lanuzza, ad una cinquantina di metri dalla spiaggia abbiamo visto una cosa a galla. Mio nonno si è avvicinato ed era un uomo morto, chissà da quanto tempo, perché era gonfio. Allora cosa ha fatto? L’ha girato ed ha cercato che cosa aveva nelle tasche, che era vestito. In una tasca ha trovato un portamonete con [dentro] una lira. La prese e mi [ha] raccomandato di non dire niente, nemmeno a mia madre, che dopo qualche giorno l’ho raccontato lo stesso e non si è saputo niente.

Il polpo di mio nonno. Ricordo ancora, sempre andando da Lanuzza, [che] un giorno abbiamo visto un grosso polipo. Lui, [mio nonno], ancora non era vecchio. Si è buttato a mare, che era vicino alla spiaggia, e lo ha preso: era qualche cinque chili. Me lo fece assaggiare per miracolo. Lo ricordo come fosse ieri, mio nonno voleva tutto lui! Mia nonna no, invece: si dispiaceva e sempre mi dava frutta ed altre cose, perché io ero ancora ragazzo.

La ricetta per vivere di più (se non ci sono disturbi di malattie). Non ubriacarsi. Non bere più di un bicchiere di vino a Non bere vino alla sera. Non fumare più di due sigarette, una a ed una alla sera prima di dormire. Non fumare mai di notte. Non arrabbiarsi nella casa o con qualcuno: levare sempre occasione e fare finta di niente. Lavorare sempre ma giusto, senza avvilirsi e senza sudare. Prendere sempre due giorni di riposo alla settimana. Quando c’è occasione riposare qualche ora di giorno. Camminare quando si può senza avvilirsi e farsi il bagno allo spesso.

I miei nipoti emigrati in Argentina. Mio nipote Mico Tardini è figlio di mia cognata e cugina Gaetana Cambria e di Stefano Tardini, figlio di Peppe Pompo, che abitava nella vinella Sant’Andrea. Era mio cognato perché sposato con Gaetana, sorella di mia moglie. Mico e Pippo sono stati diverso tempo a lavorare con il ragnitto mentre ancora avevano 13 anni. Che dopo quell’età sono partiti per Buonereisi (Buenos Aires, ndr).

Accanto all’antica fontana di Vaccarella.

Il sindaco mio parente. Ricordo essere parente con Stefano Cartesio perché è figlio di Francesco Cartesio, figlio di Stefano Cartesio, detto Decollo, sposato con Sara Cambria, sorella di Mico Cambria, il padre di Maria Tindara, mia moglie. Ricordo mio genero Nino Salmiere, figlio di Carmela Cartesio, sorella di Cartesio Francesco e Saverio Cartesio, marito di mia sorella Maria Cutugno e cugino carnale [errore, non cugino ma zio, ndr] di Stefano Cartesio, perché fratello di Francesco Cartesio.

La mia umile carriera. Ricordo la mia vita da giovane sposato con Maria Tindara. All’età di 27 anni sono andato alla Tonnara e sono rimasto per 30 annate sempre di continuo. Con quella paga e il guadagno dei pesci pescati mi pagavo il mangiare. D’inverno andavo con la lampara perché [avevo] preso a comando la rete di Salamone [detto] “Ciccio Scagghìtta”. Io avevo due parte come padrone di comando e guadagnavo bene: se i marinai guadagnavano 100 lire, io ne guadagnavo 200. Dopo sei anni che ci comandavo la rete di Salamone, [siccome] lui non aveva carattere buono ce l’ho lasciata e mi sono preso quella di Del Bono [detto] “Chiapparèlla”. Pesci ne abbiamo presi tanti: acciughe a tonnellate, tonnacchi, pesantonelli. La sera non stavo a casa. Quando ero a spasso andavo col rizzaglio a prendere cefali. La mia vita era sempre in continuo lavoro, sino che sono arrivato a sessant’anni ed ho preso la pensione, ma non ho smesso di lavorare perché mi ho comprato la barca e la rete e sono andato con Nino. E’ andata bene perché abbiamo preso tanti pesci: pesantonelli, ope ed altri pesci. All’Ottantacinque ho fatto il fermo ed il primo anno ho preso due milioni [di lire, ndr]. Dopo Nino, mio cognato, ha detto di non farlo (…) ed io non l’ho fatto più. Dopo l’ho fatto da solo. Nel 1989 ho preso cinque milioni, nel 1990 non me lo hanno dato. Nel 1991 l’ho fatto un’altra volta con Salvatore mio nipote e Maesano ed abbiamo preso otto milioni. Dunque, essendo grande ed ancora lavorando, ho preso 15 milioni. Ho scritto così questa cosa che mi ricordo perché sono dell’ultimi tempi della mia vita. Sono triste di passare gli anni che io penso che si deve pagare cinque milioni l’anno per la casa e, passando gli anni, sarà difficile da pagare. Spero di avere sempre la salute e [di poterli] pagare.

Promemoria di tutti i miei morti. Morti mio padre [e] mia madre. Morti anche mia cognata Gioacchina, sua sorella Gaetana, suo fratello Francesco Cambria. Morto mio nipote Pippo Tardini con suo padre Stefano Tardini. Morto mio suocero Domenico Cambria con sua moglie. Morti i miei zii Giovanni Cutugno e Vincenzo Cutugno. Matteo Cutugno, sua sorella Minichina. Morti mio nonno e mia nonna. Ricordo mio cugino Francesco Cutugno, Matteo Salmieri (“Succotto”), Ciccio Cambria, marito di mia zia Nanna, Mico Cambria e Nino Cambria, marito di Santa Centana.

Tutta la gente della Tonnara [del Tono, ndr] e che pure ho praticato io. Tutti morti: Raisi Masi [Salmeri, ndr] con Raisi Nino [Lo Presti, ndr] e Stefano [Salmeri, ultimo rais della Tonnara del Tono, ndr]. Ciccio Volante, Salvatore Milone, Nino La Verga, Vanni Ullo, Stefano D’Amico (“Sadduzzàro”), Stefano Ciumeca, Pippo Linora, Vanni Adoneo, Don Peppino Donia, Nino Minichino, Santo Testa, Pippino Milone, Salvatore Chillemi con sua moglie Pippina, Pippina Pulito, Nina Mancina, Pasquale Amato, Mico D’Amico (mio compare), Stefano Salmiere detto “Totano chino”, Salvatore Salmieri detto “Pennèddu”, Ciccio Salmieri (padre di Tindaro), Stefano Salmieri “Pennèddu”, Ciccio Catalano, Nino Cambria detto “Cagunello”, Pippino Milone con sua moglie Damiana, Francesco Mirasùli, mastro Francesco Salmieri e mastro Francesco Funcia.

Col passare del tempo mi ricordo tutti i morti. Stefano Maiorana, Nino Maiorana, Sara Volante, Ciccio Volante, Franco Lopresti, Saverio Cartesio, Stefano Salmieri [detto] “Mannàro”, Gioacchino Del Bono, Francesco Del Bono [detto] “Chiapparèlla”, Peppe Del Bono, Pasquale Del Bono, mastro Francesco Cambria e sua moglie Minichina, Stefano Cambria detto “Minichino”, Nino Cambria e sua moglie Santa, Felice Cambria, Gaetano Cambria, Salvatore Cambria e sua moglie Lucia, Nino Siolto [Sciotto? ndr] e sua moglie Nina “Mancina”, Matteo Galileo e sua moglie Stefana, Stefano Di Fragola e sua moglie Stefana (i miei zii). Santo Galileo, marito di Nunzia Maesano. Salvatore Maesano detto “Facio”, Nino Maesano detto “Nerio”, morto in America. Pippino Cusumano [detto] “Spinèlla”, Stefano “Orlando”, Pasquale Maesano detto “Pasqualùzzo”. Morto Saverio Cartesio, mio cognato.

Ancora sono qui in vita, scrivo oggi che ho compiuto 84 anni e 7 mesi. Sono arrivato oggi al 12 novembre e domani prendo la pensione con la tredicesima, se Dio vuole.

Due morti. E’ morta Stefana “Spada” il 21 febbraio 1995. E’ morto Gaetano Lopresti [detto] “Gilòmmu” il 9 marzo 1995. Aveva 65 anni.

Ricordando i parenti. Ricordo Matteo Salmiere, figlio di Gaetano, [a sua volta] fratello di mia nonna Maruzza Salmieri, moglie di mio nonno Francesco Cutugno. Matteo Salmieri era suo nipote. Itano Salmieri, detto “Mannàro”, era il nipote di Matteo. [Con] mio padre erano cugini, perché figlio di Francesco Cutugno, mio nonno, e Maruzza Salmiere.

A pesca con la lampara. Ricordo la mia via passata con la lampara. Avevo trent’anni, ero padrone di comando. C’erano imbarcati con me Stefano Mannàro, Nino Marchese e Salvatore Marchese. Sono stati con me un paio d’anni. Era il tempo di acciughe e pensantonelli e ne abbiamo presi assai. Il padrone della lampara era Ciccio “Scagghìtta”, [il quale] se ne [prendeva] la mettà e noi per lavorare bisognava sottostare perché era un [po’] prepotente.

Mia madre. Mio padre è morto il 20 giugno 1953 e mia madre il 14 del mese di giugno del 1955. Non c’era mio padre ed ogni mattina, quando passavo per andare alla Tonnara, mi dava una tazza di caffè. Mi voleva bene e quando è morta [ha] avuto la forza di alzare la mano per benedirmi.

Il visionario. Ricordo quando ero con il “Moffùto”. La rete [era] di donna Gioacchina. C’era[no] anche i suoi generi, zio Salvatore Piraino e suo fratello Gioacchino. Tiravamo alla Croce di Mare. Io, prima di varare, che andavamo a dormivo vicino allo zio Francesco Sciotto e non mi lasciava dormire. Diceva che vedeva [gl]i spiriti e che lo prendevano a pugni. Io mi mettevo a ridere, ci dicevo che non era vero e lui si alzava e mi diceva che io dormivo e non vedevo niente. Invece non era vero e litigavamo, non facendomi dormire. A dovevamo andare a mare e lui mi diceva, di ragione: «io li vedo». Una volta mi diceva che c’era un gatto che gli tirava la coperta: io mi mettevo a ridere.

Ormai pensionato.

Altre due morti. Il giorno 25 novembre 1993 è morto Francesco Cambria, il figlio di mia zia Anna e [di] mio zio Cicco Cambria. Il giorno 14 dicembre è morta Provvidenza Capone. Aveva 89 anni.

La casa nuova. Ricordiamo che sono venuto in questa casa [via S. Maria Maggiore, 32, ndr] l’11 aprile 1992, giorno del mio compleanno.

I miei guadagni da pensionato. Il giorno 7 dicembre 1993 scrivo questo per avere ricordo di una cosa antica, che mi serve per ricordare tutto quello che ho portato a casa e guadagnato nella mia vita. Mi ricordo di avere preso la pensione a sessant’anni e di quello giorno mi hanno dati 24 [anni] e 6 mesi, perché l’anni li faccio [l’]undici aprile. La pensione la prendo ogni due mesi, vuol dire 6 volte l’anno. Vuol dire un milione ogni due mesi, sei milioni all’anno. Ho preso la pensione per 24 anni e 6 mesi, prendo un milione ogni due mesi. Dopo ho preso il fermo del 1985, mi hanno dato due milioni. Dopo ho preso quello del 1989 [e] mi hanno dato 5 milioni. Dopo ho preso quest’ultimo [e mi] hanno dato 8 milioni e trecento mila lire. In tutto ho preso [circa] quindici milioni. Dopo ricordo di avere lavorato sino a ottant’anni. I miei figli mi dicevano di non andare più dopo [che] mi [era] successa la disgrazia che sono caduto davanti la porta della Capitaneria [di Porto] e mi sono rotto il femore, che sono stato all’Ospedale e, dopo, a casa [per] tre mesi nel letto. E Nino, mio genero, mi lavava come un bambino. Per tre mesi non potevo girar[mi] da una parte all’altra, mangiando pastina. Ora sono qui ancora in vita.

I miei incidenti a bordo dell’Andrea Doria. Al mio imbarco militare sopra [l’]Andrea Doria avevo 21 anni ed ho fatto 28 mesi. L’aiutante di bandiera S. Micalagnoli voleva che restassi a fare il sottonocchiere, [ma] io me ne sono voluto venire a casa per aiutare a mio padre. Quello che ho passato mentre ero imbarcato ora lo racconto. Un giorno, mentre alzavamo il motoscafo, si è rotta la cima: io ero sotto, nella motobarca, e mi è arrivata sopra le spalle. Dicevano che ero morto. Mi hanno portato all’ospedale e sono stato 15 giorni a faccia all’aria, dandomi da mangiare. Dopo ho camminato per un paio di giorni con la stampella e così mi sono guarito.
Un’altra volta siamo andati a terra a portare l’Ammiraglio. Al timone c’era un toscano, un certo Sacchelli che era ubriaco. Si [era] bevuto una bottiglia di vischi: ha investito con una boa e siamo andati a fondo. Allora io, Misio e il motorista, che si chiamava Cagero, abbiamo preso l’Ammiraglio e l’abbiamo portato a bordo. L’Ammiraglio ha riconosciuto che ci abbiamo occupati di lui e ci ha regalato diecimila lire [ad] ognuno, che allora e[rano] soldi. [Poi] ha fatto riunione a bordo.
Un’altra volta abbiamo fatto un altro incidente, che ci ha preso fuoco la S. Barbara, che a momenti saltavamo in aria con la Doria.

Alla Tonnara del Tono, cogli altri tonnaroti: lui è contrassegnato col n. 16.

Alcuni defunti. Morto Francesco Cincolana [Cingolani?, ndr] nel mese di gennaio 1994. Morto Matteo Salmieri detto “il Succutto”, 1991. Morto Pasquale Cambria: aveva 77 anni [ed era] il mese di agosto. Morta la madre di Pippino Mirasùli (luglio). Morta Stefana Capone, moglie di Pasquale Amato. Morto Emanuele Formica ai primi di luglio.

La morte di mia moglie. Ricordando mia moglie, morta il mese di marzo, il giorno 19, [festa] di S. Giuseppe dell’anno 1979. Aveva compiuto 68 anni. Io avevo settant’anni.

La mia vita di soldato a Murro di Porco. Ero alla lanterna di guardia. Quando sono arrivato c’era una signora, [che] era sposata con Marceca. Aveva 25 anni, era una brava ragazza [e] mi voleva bene: anche suo marito, che aveva trent’anni. Ogni domenica mi volevano a mangiare a casa [loro]. Abitavano vicino noi, erano brava gente. Là c’era una campagna e [ci] stava un vecchiarello che aveva 60 anni [e] due figlie: una aveva 18 anni ed una ne aveva 32, ma quella di 18 era bella e con i capelli sciolti di dietro. Si chiamava Peppina ***. Suo padre si chiamava Santo. Abbiamo preso confidenza. Io ci davo l’olio e la pasta, anche il pane, perché ero cuoco e li rispettavo, che erano gente povera. Questa Pippina veniva a trovarmi quando io ero franco. Un giorno mi disse: «perché non mi porti al bagno?». Risposi: «si, ti porto quando sono libero». Mi disse che non aveva il costume: «va bene, vediamo se lo trovo», [risposi]. Sono andato dalla signora Marceca, [ma lei] non me lo voleva dare (…). Mi disse che ci scriveva a Maria Tindara, che era la mia fidanzata. Io ci rispose che non c’era niente di pericolo. Allora si è persuasa e me l’ha dato, dicendo di nascosto a suo marito. Allora l’ho portata, [ma] Peppina non sapeva nuotare. Dico la verità: mi sono divertito. Quando siamo tornati, verso le undici, suo padre mi disse: «Cutugno, ci raccomando alla piccirilla, io ce l’ho data perché è un bravo ragazzo». Ogni giorno, quando ero libero, li andavo a trovare [per] farci compagnia. Quando passarono gli 11 mesi, che mi congedarono, voleva venire a Milazzo. Io [le] ho detto che non potevo farlo perché ero fidanzato. Ho passato undici mesi bene a divertirmi. La signora Marceca (…) mi diceva sempre che voleva l’indirizzo [di casa mia].

I miei superiori a bordo dell’Andrea Doria. Sono stato imbarcato sull’Andrea Doria 28 mesi. Padrone del motoscafo [della corazzata, ndr]:Ammiraglio Roberto Monaco, duca di Lungano; aiutante di bandiera: Scevini; commissario di bordo: S. Colosi e S. Cramaglia. Volevano che io mettessi [la] firma per diventare nostromo. Io me ne sono voluto venire a casa per aiutare a mio padre.

L’idrovolante. Nel 1941 è caduto un apparecchio. Siamo andati con Peppino Felice, c’era un uomo con la gamba sotto il motore [che] non poteva uscire: l’abbiamo alzato, [ce] l’aveva rotta. L’abbiamo preso con la barella e portato all’Ospedale di Vaccarella. E’ stato tre mesi e camminava adagio. E’ venuto a casa mia, che abitavo vicino. Ci ha portato ventimila lire a me e Peppino, che [allora] erano soldi. L’abbiamo ringraziato: è stato un bello periodo, dopo se n’è andato al suo paese.

Come una sigaretta. Mi ricordo la vecchia canzone [del 1930, tango di V. Mascheroni, ndr]:
O snella sigaretta così bianca,
che vai consumandoti al calore,
io che ti reggo con la mano stanca
io penso quanto è falso il tuo candore.
Sei bianca fuori ma il tuo corpo è pieno
di biondo sottilissimo veleno.
Trovai una donna e somigliava a te
e il suo veleno lo diede tutto a me.
Così…

Come una sigaretta,
che in fumo se ne va,
la donna più perfetta
soltanto il fumo ti lascerà.
Basta una piccola scintilla perché
s’accenda tutta di passione per te.
Come una sigaretta
che in fumo se ne va...


Un dì, credevo candida e perfetta
colei che già sognavo tutta mia,
ora è di tutti e come sigaretta
ognuno fuma e poi la getta via.
Così come ho gettato via dal cuore
il mio rimpianto per quel primo amore.
Tutto è sfumato e ormai di quel che fu
che resta?
Un po’ di cenere e non più.
Così…

Come una sigaretta,
che in fumo se ne va,
la donna più perfetta
soltanto il fumo ti lascerà.
Basta una piccola scintilla perché
s’accenda tutta di passione per te.
Come una sigaretta
che in fumo se ne va...

Se brilla ancora una scintilla per me
non è una stella ma so bene cos’è:
Un’ultima sigaretta che in fumo se ne va...

Non scrivo più bene i miei ricordi [la calligrafia diventa sempre più incerta, ndr]. Questa pagina è stata scritta da me Francesco Cutugno il giorno 7 ottobre del 1995. Ho compiuto 86 [anni] e mezzo e mi ricordo certi frasi che ancora non dimentico. Mi ricordo mio nonno Nicola Galileo, aveva quattro figli: mia madre, Francesca, Maruzza e Matteo. C’era pure *** [che] era bastardo, l’ha preso da donna ***: li davano a rate. Nicola Galileo è morto alla Tonnara del Capo, dormiva a terra e l’ha morso un insetto nella faccia, è stato un morso maligno, causando[gli] la morte. Mio zio Matteo Galileo è morto con un male nella faccia, è stata infezione di rasoio. Mio padre Cutugno Santo era del 1884 ed è morto nel 1955 con la malaria, che sempre soffriva. Aveva 71 anni. Mia madre è morta dopo un anno: si sono sbagliati di poco. Mio nonno Francesco Cutugno era il marito di Maria Salmieri e [questa] era sorella di zio Itano  Salmeri, il padre di Matteo Salmieri detto “Succutto”.  La Tonnara del Capo è [stata] calata per un anno, che non poteva calarla per la forte corrente e l’ha calata il conte Cumbo. I pesci c’erano, ma non poteva resistere [alla] forte corrente. Anche mio padre è andato in questa tonnara. La madre di mia madre si chiamava Gioacchina Farina. Era sposata con nonno Nicola Galileo, che l’ha morso un insetto nella faccia.

Due lutti. Il 25 gennaio 1996 è morto Stefano D’Amico detto “il Mimmo”. Aveva 81 anni [ed è] morto con la pressione. Il 29 gennaio 1996 è morto Stefano Cambria detto “il Barbiere”.

Durante il servizio militare. Era il 1931 ed eravamo di guardia, dalle nove a io, Turi e Composto, che ormai sono morti. Eravamo di guardia al ponte girevole di Taranto, che di sotto c’era una casa grande e là c’erano conservati tutti gli attrezzi da ormeggio delle barche che accostavano al pontile. Dunque, mentre passeggiavamo tutti e tre, verso le 11, abbiamo sentito uno forte dirupo nella casa di dietro. Allora Turi dice: «non ci fate caso. Sono i gatti, li ho sentiti sempre». Basta, s’è fatta e siamo già smontati e andati a dormire. Verso le nove viene a svegliarci il nostromo, si chiamava Santo Cutugno. Mi prende e mi dice: «parente, siete capitati in un bel guaio. Stanotte hanno rubato tutto il magazzino mentre voi eravate di guardia. Dunque, datevi da fare, allora dovete pagare, perché eravate paesani». Io lo insultai. Ce ne dissi di tutti i colori. Meno male che eravamo parenti! Non sapevamo cosa fare. La sera, verso le nove, vado dal Comandante e ci raccontai tutta la storia. Mi disse: «siete pronto a prendervi una divisa?» Io risposi di si. Mi prendo la divisa, mi vesto e me ne vado dietro la casa, verso le undici di notte, con una pistola che non sapevo adoperare. Turi e Composto mi guardavano e ridevano. Dunque, a sento scapiciàre e viene questo disgraziato col carretto pronto a fare l’altro colpo. Allora io salto con la pistola: alza le braccia e mi dice: «avete pietà di me!» Io risposi: «io me ne vado in galera! Basta!... camminate con me!» E lo portai direttamente nella nostra prigione e così è finita.

Il fermo del 1994. Hanno fatto il fermo il mese di febbraio [e] dal primo al 18 marzo.

L’appunto. Ho comprato l’estintore, tre salvagente, un salvagente anulare, una cassetta medicinale e fuochi veri. Sono conservati in barca.

Quando non ci sarò più. Saluto il mondo. Saluto il mare e la terra. Saluto il sole. Saluto tutti i miei figli Checchina, Maria, Santo, Gioacchina, Domenico e Nicola e [tutti] quelli che domandano per me. Francesco Cutugno, anno 1996.